Il rumore dell’acqua. Intervista a Maria Giuseppina Grasso Cannizzo

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Autore: Paolo Lucchetta
Pubblicato in VeneziaNews – n.227, settembre 2018, rubrica “:arch”
Foto di Daniele Ratti, Sissi Cesira Rosselli, Fabio Mantovani
Lingua: italiano/inglese

Venezia, Bar di Campo Santa Maria Nova, tardo pomeriggio del 27 maggio 2018.
Maria Giuseppina Grasso Cannizzo è un architetto italiano, siciliana, estranea ai circuiti universitari, che con poche realizzazioni, concettualmente molto intense, ha ottenuto riconoscimenti come la Medaglia d’oro alla carriera (Triennale di Milano 2012) e la Menzione Speciale della Biennale di Venezia 2016. Presente anche alla 16. Biennale Architettura, invitata dalle curatrici Yvonne Farrell e Shelley McNamara a partecipare a Freespace.

Esclusiva, narrativa di un mondo inarrivabile, perfezionista dell’imperfezione, libera da preconcetti formali perché «l’architettura non deve piacere, ma deve convincere, e perciò non può addivenire a compromessi». Le sue opere ed il suo pensiero sono magistralmente narrate nel libro di Sara Marini Sull’autore (Le foreste di cristallo di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo), Quodlibet Studio.

Ciao Giuseppina. Nella scorsa edizione della Biennale Architettura Alejandro Aravena aveva elogiato la tua ricerca per la capacità di «trovare le risorse di senso di cui abbiamo bisogno e per ristabilire il nesso necessario tra architettura e società, architettura e città, architettura e ambiente».
Il fatto è che tu in qualche maniera dimostri che questa professione ha un senso soprattutto nella pratica quotidiana, che magari da altri viene trascurata, dando visione alla capacità di creare delle piccole rivoluzioni. La prima domanda è quindi sul senso primo della professione di architetto.
Una serie di circostanze mi ha portato a lavorare sul territorio in cui abito. Quando mi sono trasferita in Sicilia, affrontando per lo più la piccola scala mi sono accorta che anche operazioni apparentemente ininfluenti incidevano profondamente sul territorio e sulla comunità di persone coinvolte nel processo costruttivo. Attorno a un disegno o sulle impalcature si intrecciano solitamente opinioni diverse, suggerimenti, ordini, si prendono decisioni, si precisano regole, si condivide talvolta la frugalità di un pasto inaspettato. Il progetto, dall’ideazione all’esecuzione, è di fatto punto di aggregazione delle parti coinvolte attorno a un unico obiettivo. Un operaio, a cui chiesi la cortesia di accudire i miei gatti, alla domanda di quanto gli dovessi per il disturbo, rispose: «Ha tante opere di artisti nella sua casa, può regalarmi un disegno?». Gli regalai una edizione di Mario Schifano. Spesso ho scoperto tra il pubblico delle mie conferenze o alle inaugurazioni delle mostre, persone che hanno partecipato all’esecuzione dei miei lavori o committenti. Mi sorprese, per esempio, la presenza di un operaio all’inaugurazione della mostra di Innsbruck: alla fine della serata mi ringraziò per averlo reso consapevole dell’importanza del suo ruolo nel processo costruttivo. La partecipazione del committente all’intero processo è di certo imprescindibile per evitare imposizioni e scelte non condivise; negli anni ho imparato a prestare ascolto a chi chiede di dare forma alle proprie necessità e ai propri sogni. Quando riesci a concludere felicemente un lavoro, il risultato è sorprendente: nel momento dell’occupazione gli spazi vengono riconosciuti come propri, il contributo dell’architetto diventa solo un ricordo, l’uso dello spazio nella quotidianità li induce a riflettere nel tempo sull’opera stessa. Molti dall’inizio non accettano il coinvolgimento, cercano dall’architetto modelli ben confezionati e risposte impositive che non implichino l’impegno di una scelta consapevole. Ovviamente l’incapacità personale di imporre decisioni allontana dal mio studio una parte della possibile committenza.

Anche quest’anno sei stata invitata da Biennale e dalle curatrici, Grafton Architects, a partecipare alla Mostra in Arsenale. La seconda domanda riguarda il tema dell’allestimento, che sembra appassionarti molto, quasi quanto l’architettura. Cito una frase di Nina Bassoli: «la capacità di Giuseppina è quella di attivare lo spazio con l’uso, la volontà di rispondere alle necessità spaziali, considerando sia i movimenti del corpo che della mente».
L’allestimento è un progetto: un’opera temporanea e un’opera persistente hanno solo una diversa aspettativa di vita. Il processo è identico: partendo dall’idea attraversa tutte le scale del disegno per produrre tutti gli elaborati necessari all’identificazione degli elementi necessari alla costruzione. L’allestimento è un progetto che condensa principi senza necessariamente costruire degli spazi utili.
Quando nel 2012 Arno Ritter mi propose l’esposizione a Innsbruck non chiese una mostra monografica, ma un progetto che mettesse in scena il senso del mio lavoro occupando parte dello spazio dell’Adambräu. Il progetto della mostra Loose Ends è un itinerario che, partendo dalla quota più alta, si immette in uno spazio dove apparentemente nulla è cambiato. Improvvisamente, secondo tempi diversi, porzioni di pavimento si sollevano lentamente svelando cavità che contengono mondi sommersi e sconosciuti; continuando la discesa il visitatore scopre la presenza incombente del negativo dell’installazione. Partendo dallo spazio trovato, tinteggiato di nero, con un pavimento caratterizzato da quattro enormi fori chiusi da tavolato, ho preso la decisione di rimuovere il tavolato. I fori liberati diventano il luogo del progetto: tre occupati da altrettanti grandi silos con coperchi a filo del pavimento esistente, mentre un unico foro rimane libero, stabilendo un’imprevista relazione visiva tra spazi sovrapposti.
Per la mostra Architecture as Art Pierluigi Nicolin e Nina Bassoli mi chiesero un progetto di uno spazio che assolvesse a una precisa funzione e nello stesso tempo riuscisse a esprimere una riflessione personale sull’architettura. Entrance fu il tema assegnato. L’obiettivo del progetto diventava, in questo caso, la definizione di un dispositivo disponibile alla modifica e alla partecipazione degli occupanti: il volume complessivo doveva essere cangiante e permeabile in ogni punto e in ogni direzione. Dall’esterno, cambiando il punto di vista, il volume doveva svelare possibili varchi e poco dopo apparire inaccessibile. Il volume dell’installazione era composto di 1.116 tubi in ferro di altezza e diametro variabile, disposti verticalmente e sospesi su una maglia di 15×15 appesa alla struttura della copertura dell’Hangar Bicocca.
Anche il progetto per Bellissima, pur nascendo dalla necessità di allestire una mostra sulla moda, doveva in qualche modo esprimere una riflessione sulla modalità di stratificazione sull’esistente.
La struttura dell’allestimento è stata pensata come una infrastruttura autonoma, inserita in un paesaggio definito dai confini fisici dello spazio trovato. Il progetto del tracciato, con andamento variabile in pianta e in sezione, generava un volume che diventava nello stesso tempo passerella per la sfilata dei manichini e tavolo di sartoria per contenere o appoggiare i materiali della mostra. Tante parole solo per dire che per me un allestimento è un’opera di architettura.

Quindi possiamo definire l’allestimento un progetto di architettura o di arte?
I confini sono labili, è sempre possibile sconfinare in altri territori.

Parliamo ancora di allestimenti: i fogli di carta sciolti dei tuoi allestimenti e dei tuoi libri, Jeff Wall e Hokusai, sono indizi sul significato di una fragilità materiale che sembra dare forma a possibili progetti.
Credo che ognuno di noi trasferisca le proprie ossessioni nel lavoro. I confini definiti mi hanno fatto sempre paura, ho sempre avuto bisogno di intravedere aperta la via di fuga. Costruire con la carta, materiale di per sé fragile e deperibile, potrebbe dare a ciascuno la possibilità di trovare da solo altri possibili varchi, ma non è necessario utilizzare la carta come materiale di costruzione per progettare la fragilità. La fragilità d’altronde fa parte della vita; anche l’architettura, come qualsiasi organismo vivente, è un dispositivo che ha una sua aspettativa di vita: accetta la propria fragilità mostrandosi sempre disponibile a subire alterazioni, modificazioni, amputazioni impresse nel tempo da necessità non previste. L’architettura non raggiunge mai un assetto definitivo, non si preoccupa di preservare la propria integrità; in realtà sfugge ai principi di persistenza. Negli anni ho imparato ad accettare anche gli effetti, talvolta devastanti, della storia sulla città edificata e a sospendere il giudizio sulle stratificazioni sedimentate, includendole spesso nel progetto di attivazione di nuovi cicli di vita.

La tua formazione è stata fortemente influenzata dagli anni con Franco Minissi; hai avuto un’introduzione all’architettura passando dal Restauro Critico dell’ambiente costruito. Questo percorso sembra aver lasciato delle tracce molto forti nel tuo pensiero.
Nel 1972, convinta di non avere ancora tutti gli strumenti necessari ad affrontare il progetto, ho scelto di concludere i miei studi con una tesi in restauro, pensando erroneamente di avere trovato la via di fuga dal progetto. Il relatore era Franco Minissi, esponente di spicco del Restauro Critico. Da questo incontro iniziò il mio percorso. Negli anni successivi, le prime esperienze di progetto e di cantiere mi hanno indotto a riflettere, a verificare gli insegnamenti, a stabilire relazioni con esperienze, discipline e ambiti conoscitivi diversi. Negli anni ho acquisito la consapevolezza che i principi teorici del Restauro Critico, come l’adattamento e la reversibilità, la rinuncia a imporre il proprio valore, l’uso strumentale dei materiali, non solo costituivano il retroscena culturale della mia formazione, ma erano parte del mio strumentario nel processo di elaborazione del progetto, sia di nuova edificazione, sia di riuso.
Anche nell’ultimo lavoro realizzato, la riattivazione di un asilo nido in Sicilia, l’intervento di trasformazione rinuncia a uscire allo scoperto; l’obiettivo è quello di rendere abitabile l’oggetto trovato, conservando geometria e spazialità originarie, sfruttando peculiarità, riattivando relazioni spaziali interrotte. Solo la presenza di attrezzature provvisorie sulla scena, in questo caso, denuncia l’intervento: attrezzature pensate come bagaglio, che trasportano lo stretto necessario a soddisfare necessità di una nuova vita. Posizionate opportunamente frantumano senza distruggere la spazialità originaria, producono variazioni nella ripartizione di superfici, funzioni e ruoli, moltiplicano le viste, pronte però ad abbandonare la superficie occupata per lasciare posto a nuovi bagagli e procedere all’allestimento di altre scene.

La tua storia, la tua esperienza professionale ha avuto una fase all’interno di una struttura di progettazione anonima e collettiva, una fase cui corrisponde stranamente il periodo in cui più ti sei interessata all’arte visiva.
Sì, le due fasi coincidono. Negli anni Ottanta, con il trasferimento a Torino, i miei interessi si spostano dal teatro sperimentale degli anni ’70 all’arte visiva. È stato come spesso accade un incontro casuale: una domenica mattina, aspettando il mio turno all’interno di una pasticceria torinese, una persona mi rivolge la parola dando inizio a un’amicizia che stabilirà il mio primo contatto con l’ambiente legato all’arte visiva. Due anni dopo una persona si avvicina al tavolo del bar dove ero seduta con un amico e, dopo averlo salutato, dice che è alla ricerca di giovani architetti per una campagna di rilevamento nelle aree terremotate della Basilicata. Io mi feci avanti, ma lui obiettò che i gruppi di lavoro erano composti generalmente da uomini. Andai comunque a quel colloquio. Non durò moltissimo, lavorai solo un anno e mezzo per lo studio Liveriero, Dutto, Rigotti, fornitore esterno della Fiat Engineering. Ricordo che c’era un unico e lunghissimo disegno sulle pareti dello studio, un gigantesco abaco di dettagli costruttivi da usare a discrezione del progettista, principi compositivi, dimensioni massime di tutti gli elementi costruttivi per ottenere il massimo controllo sul risultato finale. All’interno di un singolo progetto ciascuno poteva essere spostato secondo le necessità del processo complessivo; tutto questo implicava che disegni, appunti a mano, trascrizioni di misure, spessore dei pennini, formati, squadratura dei fogli, testi dovessero rispettare precisi e inequivocabili codici di rappresentazione. La rinuncia all’invenzione e la spersonalizzazione del segno e della scrittura erano le prime regole da osservare. Attraverso letture e frequentazioni nel mondo dell’arte ho scoperto che la spersonalizzazione dei segni non era una pratica aberrante, ma una consuetudine per molti artisti concettuali. L’esperienza della Fiat Engineering mi è comunque certamente servita anche per arginare la mia insofferenza alle regole e per costruire una mia disciplina.

Quando visitai la casa di Noto vidi in uno scaffale i libri di Jean Prouvè, dei Case Studies californiani, libri che mi sembrarono parte del progetto come omaggi verso un certo senso dell’architettura. I tuoi progetti sono legati a riferimenti e nostalgie verso qualche opera o architetto del passato?
La torre di controllo di Marina di Ragusa è un chiaro riferimento a Prouvé, per esempio. Le sue opere sono un’ossatura che sostiene un corpo fragile e provvisorio.

Come li hai conosciuti? Come sono entrati nei tuoi progetti?
Attraverso la lettura, ho viaggiato poco negli ultimi anni. Ho guardato con attenzione al movimento Metabolista, al Brutalismo, ad Alison e Peter Smithson, ai BBPR, per citare nomi e movimenti conosciuti, ma anche a costruzioni più semplici progettate da anonimi uffici tecnici, come le pensiline sovietiche dei trasporti pubblici, gli autogrill delle nostre prime autostrade, le stazioni di carburante dell’ENI. Sono risposte chiare e precise e non forme. Mi interessa l’uso della prefabbricazione come modalità costruttiva. FCN a Noto è un esempio di come una scelta costruttiva obbligata (elementi in cemento prefabbricati) possa contribuire a realizzare un’opera di architettura. Nel progetto Words, che ha vinto il concorso Costruire Il Nuovo Millennio, partendo dal progetto di un certo numero di elementi prefabbricati in cemento armato si dimostra come sia possibile indifferentemente comporre case singole di diverse dimensioni, case doppie e interi pezzi di città.

Quale la tua esperienza e il tuo ruolo nel mondo della formazione, dell’insegnamento e delle scuole di architettura?
Esperienze episodiche e distanti nel tempo. Mi sono formata insegnando a fianco di Franco Minissi. Sono rimasta con il Professore per sei anni, fino a quando non è entrata in vigore la legge che non prevedeva la possibilità di conciliare l’insegnamento con l’attività professionale. Allora ho scelto senza incertezze il progetto.
Molti anni dopo ho insegnato a Palermo, a Siracusa, a Trento, oltre a esperienze brevi come alcuni workshop. Per il momento continuo a formare giovani architetti nel mio studio. La vita di cantiere ed esercitazioni mirate hanno fino ad ora suscitato il loro interesse e prodotto buoni risultati. È molto difficile che li coinvolga nel lavoro dello studio; il mio controllo sugli elaborati diventerebbe estremamente faticoso, con il rischio di correzioni frettolose per evitare la sospensione del cantiere. Preferisco che siedano alle mie spalle e in silenzio seguano la mia mano. Mi auguro che i ragionamenti fatti a voce alta sul progetto e l’osservazione diretta di processi costruttivi li conducano nel futuro verso ulteriori riflessioni.

In quale senso il paesaggio della Sicilia è importante nel tuo lavoro?
Ho avuto per molti anni un rapporto difficile con la Sicilia: da una parte ero fortemente attratta dal luogo, dall’altra sentivo l’urgenza di partire. Molti anni dopo è cominciato il processo di riconciliazione, che ha coinciso con la decisione di tornare. La Sicilia è un territorio in movimento, attraversandola scopri che la terra e le fioriture cambiano continuamente colore e che dopo aver attraversato un altopiano, chiuso tra le montagne, puoi improvvisamente scoprire l’orizzonte e il mare. Ma è anche un luogo imperfetto, in cui convivono differenze, contraddizioni, approssimazioni, incongruenze e casualità. Credo che il mio lavoro lontano dalla Sicilia avrebbe potuto seguire altre strade. Negli anni sono giunta a sospendere il giudizio, portando a compimento il processo di riconciliazione. Nella mia ultima realizzazione, ai margini dell’abitato di Modica, il progetto di parziale ricostruzione non corregge inconvenienti, non elimina difetti, si stratifica sull’esistente senza provocare il cambiamento della scena.

Hai mai avuto l’occasione di fare progetti a Venezia e per Venezia?
Purtroppo questa opportunità non c’è stata: Venezia è un esempio di come delle difficoltà oggettive possono produrre un risultato straordinario. La città e la laguna riescono sempre a destare stupore e meraviglia, dall’alto nel momento dell’atterraggio, dal pelo dell’acqua durante il trasferimento dall’aeroporto alla città, percorrendo i ponti che collegano le isole. L’acqua e il rumore dell’acqua ti accompagnano in qualsiasi momento: l’altra notte tornavo a casa con il vaporetto, solo qualche motoscafo fendeva l’acqua della laguna che infrangendosi sui prospetti delle case rompeva il silenzio. Il rumore del mare nelle notti in cui spira il maestrale, o quello dell’acqua che lambisce la battigia, ha accompagnato fino a oggi il sonno delle vacanze in Sicilia nella casa del nonno, costruita sulla spiaggia nei primi anni dello scorso secolo. Quando sono a Venezia, spesso durante la notte mi sveglio e sento la città che si muove sull’acqua, questa sensazione persiste per giorni dopo l’approdo sulla terraferma: mi accorgo sempre di essere arrivata, lo potrei dire a occhi chiusi.

Grazie di cuore davvero, Giuseppina. A presto.

Nelle fotografie:
Maria Giuseppina Grasso Canizzo DIP / INTO
Freespace, Arsenale

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La scrittura e il progetto
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Metropolitano.it – Intervento di Paolo Lucchetta