La scrittura e il progetto

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Author: Paolo Lucchetta
Published in VeneziaNews – n.243-244 (special edition), may 2020, column “:tracce”
Language: Italian

In un periodo di pausa (forzata) diventa inevitabile riflettere su noi stessi, la nostra vita, il nostro percorso e il nostro futuro. Stiamo parlando qui innanzitutto di noi, di Venews! Quindi da dove partire per ripensare il magazine sia graficamente che editorialmente? Dove trovare la forza di una naturale evoluzione? Naturalmente guardando alle nuove frontiere dell’editoria, ma anche – perché la carta per noi è irrinunciabile, dove idee, spazio e tempo si fondono ai ritmi personalissimi di ogni lettore – studiando progetti che sono diventati di fatto capisaldi dell’editoria di settore. Non potevamo che partire, dunque, da un’esperienza che per quanto milanese ha radici profonde a Venezia e che diventa anche un sentito omaggio a un grande architetto recentemente scomparso: l’eredità di «Casabella» di Vittorio Gregotti, direttore della rivista dal 1982 al 1996. Un racconto attento e appassionato di Paolo Lucchetta, acuto ricercatore di idee.

Difficile definire nella densità delle sue molteplici attività il ruolo che Vittorio Gregotti (1928– 2020) ha svolto nella cultura architettonica italiana: maestro del Novecento, professionista, saggista, teorico, polemista, critico dell’architettura, ruoli sempre e comunque interpretati nella ricerca di dimostrare che l’architetto è chiamato a svolgere una professione non solo tecnica, ma soprattutto intellettuale.

C’è un progetto che riassume gran parte di queste sue anime e le dispone in una prospettiva di lungo periodo ed è, a mio parere, quello di «Casabella», rivista di cui assume la direzione dal numero 478 del 1982 fino al numero 630/631 del 1996. Gregotti aveva in precedenza lungamente ed intensamente frequentato le redazioni di «Casabella-Continuità» con Ernesto Nathan Rogers, in seguito di «Edilizia Moderna», delle riviste del Gruppo 63, in particolare «Marcatrè» «il Verri», del comitato scientifico di Lotus International, della direzione di «Rassegna» nel 1979.

Di grande aiuto nel seguire la vicenda è la lettura del bellissimo testo di Chiara Baglione, Casabella 1928/2008 edito da ElectaArchitettura, nel quale sono raccolte citazioni dirette che ben illustrano il significato che Vittorio Gregotti attribuiva all’attività pubblicistica, alla scrittura, al lavoro sulle riviste, alla pratica architettonica e alla riflessione teorica, attività che sono sempre state componenti essenziali del suo impegno come architetto, quanto lo erano state per il suo maestro Rogers.

Gregotti confidò nelle pagine di «Casabella» che «Il modo di affrontare la scrittura all’interno del contesto di una rivista è tutt’affatto speciale. Da un lato esso è in qualche modo una mimesi del progetto, perché una rivista si costruisce in redazione, con limiti speciali e attraverso una collaborazione collettiva complicata, un lavoro quotidiano e paziente che somiglia molto al lavoro della progettazione.
Nello stesso tempo esso si dispone e prende senso in una prospettiva di lungo periodo, nell’insieme, nella serie, nella sequenza discontinua degli atti dello scrivere mese dopo mese. Una rivista ha il compito sempre di utilizzare le condizioni circostanti, come una specie di materiale, proprio per stabilire nei confronti di queste condizioni una distanza critica: esattamente come un progetto di architettura. La relazione tra pratica architettonica e riflessione teorica non è tanto la prova della correttezza delle idee che si esprimono, quanto una base duramente necessaria, specie in questi tempi difficili, per l’architettura: indispensabile per la sua stessa sopravvivenza».

Quanto tutto questo avesse una relazione con il suo lavoro di architetto, quanto il pensiero di Rogers fosse sempre vivo nel suo agire e pensare, risulta molto evidente dalle pagine dei primi suoi numeri della rivista. «Devo infatti dichiarare che gli scritti hanno avuto sempre dei rapporti diretti con il mio lavoro di architetto. Come l’insegnamento universitario, lo studio della storia dell’architettura o la direzione di una rivista, la riflessione teorica resta soprattutto per me un modo di accumulare e ordinare materiali per il progetto di architettura. Quando io ho assunto la direzione nel 1982, credo che il pensiero di Rogers abbia ricominciato a influenzare «Casabella».

La difesa del progetto moderno che abbiamo condotto in questi anni, come progetto critico incompiuto, il valore e i limiti critici della nozione di metodo, l’idea della sua applicabilità, il principio delle verità specifiche e limitate, la nozione di progetto come forma di dialogo tra diversi con il contesto, la necessità di fondare teoricamente ogni progetto che si intraprende, e soprattutto io credo la centralità dell’architettura come un nuovo modo di essere nel mondo, di conoscerlo e trasformarlo, sono principi che Rogers avrebbe riconosciuto come da lui provenienti».

Gregotti introduce però altri due temi principali che resteranno presenti nell’intero ciclo della sua direzione della rivista: la forma del territorio e la specificità disciplinare. «Sono state aggiunte due linee complementari: da un lato il tema della forma del territorio, ciò che concerne non solo la questione dell’architettura su grande scala quanto le considerazioni e le opportunità che hanno posto in primo piano il tema del contesto come geografia e come storia, dall’altro il rapporto con la realtà e quindi la dibattuta questione dell’autonomia disciplinare e della distinzione tra questa e la nozione di specificità disciplinare a cui io faccio costante riferimento».

Il progetto della rivista è molto significativo ed emblematico del suo percorso. A «Casabella» Gregotti costituisce una redazione esterna composta da storici e critici con i quali ha rapporti personali e di lavoro, selezionati anche sulla base delle aree geografiche di riferimento, vedi, ad esempio, Giorgio Ciucci e Massimo Scolari professori dello IUAV dove Gregotti insegna dal 1978. Gregotti decide fin dall’inizio di chiedere a Jacques Gubler di contribuire a ogni numero con una Cartolina indirizzata a Myriam Tosoni, segretaria di redazione di «Casabella» fin dagli anni di Rogers (anche le cartoline 1982/1996 sono raccolte in una pubblicazione di Electa).

Gregotti individua poi altri due pilastri del progetto-rivista rappresentati dalle presentazioni di un edificio, un progetto (realizzato o non) da un architetto italiano e uno da un architetto straniero. Poi attualità, argomenti, recensioni di volumi e mostre, segnalazioni di lavori in corso, interviste, risultati di concorsi e di progetti in breve. E inoltre interventi teorici e critici, “L’opinione degli altri”, oltre alla presenza di un saggio storico, “Documenti di architettura”, che propone una riflessione critica sulle tradizioni dell’architettura moderna.

A differenza di Rogers, Gregotti non apre la rivista con un articolo di fondo, bensì inserisce il suo contributo teorico mensile tra gli altri testi. Si tratta di una scelta precisa, figlia dell’idea di una rivista composta da un insieme di voci che confluiscano organicamente, e non programmaticamente, verso una certa direzione. Inoltre, riservando l’apertura alla presentazione di un progetto, intende sottolineare il fatto che l’architettura torna al centro dell’attenzione. Chiara Baglione infatti a questo riguardo sottolinea che «[…] dopo l’interdisciplinarietà che aveva caratterizzato la rivista di Tomás Maldonado e precedentemente la dissoluzione dei confini tra architettura e arti visive nell’avventura di Alessandro Mendini del controdesign, si annuncia così il ritorno alla specificità disciplinare.
Una rivista controcorrente nella sua stessa formula che ha sempre preferito l’analisi articolata delle opere alla loro glorificazione come immagine, perché ha cercato di opporre alle esagerazioni delle mode la ragionevolezza, l’equilibrio, lo sguardo sulla lunga durata».

Anche l’elegante e sobria veste grafica studiata da Pierluigi Cerri, socio di Gregotti dal 1974 e già autore dell’immagine di «Rassegna», esprime la qualità del progetto Casabella e lo valorizza anche grazie all’adozione di una carta usomano color avorio che mette in risalto le qualità materiche dei disegni e degli schizzi, a partire dal progetto dei disegni di architettura a filo in copertina, penalizzando le fotografie in bianco e nero.

Dalle pagine della rivista Vittorio Gregotti, dopo qualche tempo, si interroga sull’identità e sulla posizione della rivista stessa. «Dopo sei mesi della nuova «Casabella» è necessario chiederci se il lavoro sino a qui svolto sia suscettibile di una qualche identità dentro la complicata geografia delle diverse posizioni attuali della nostra disciplina.

Ebbene noi ci chiediamo: è sufficiente il costante richiamo che abbiamo cercato di proporre in questi primi mesi al tema del progetto articolato attraverso tutti i suoi materiali e contrapposto alla preminenza dell’immagine formalistica? È sufficientemente chiara la nostra volontà di contestualizzare i progetti per rapporto alle loro condizioni di produzione materiale? È sufficiente la nostra dichiarata contrapposizione all’uso puramente stilistico della storia? È sufficiente il nostro insistere sui temi della regola, della tecnica, del mestiere? È sufficiente il nostro riferimento al piano come preminente contenuto del progetto di architettura e alla indispensabilità del progetto stesso come qualità del piano? È sufficiente aprire, come abbiamo cercato di fare, interrogativi su quale sia la posizione della nostra disciplina nel contesto del lavoro culturale, contro il suo affondamento economicistico professionale?».

Eppure il vero, indimenticabile manifesto della rivista, però, rimane il primo numero, il n. 478, che significativamente si apre con un servizio sul quartiere Malagueira a Evora di Álvaro Siza. Gregotti, che aveva conosciuto l’architetto nella seconda metà degli anni Sessanta, gli aveva dedicato nel 1972 un saggio su «Controspazio», introducendo per la prima volta in Italia la sua opera, alla quale aveva poi dedicato una mostra al PAC di Milano nel 1979. Soprattutto se letto in parallelo con l’articolo che chiude il primo numero della rivista, dedicato al progetto di Gino Valle per il quartiere di edilizia residenziale pubblica sull’isola della Giudecca a Venezia, «l’intervento di Siza pone con chiarezza le questioni della specificità del luogo, come storia e fisicità dell’ambiente e della fascinazione stilistica dell’architettura spontanea introiettata da Siza come materiale strutturale della sua architettura, attraverso una nozione di povertà come economia degli strumenti, ma anche come sfida all’invenzione che tale povertà produce».

Vittorio Gregotti scriverà per quel numero un testo dal titolo memorabile, L’ossessione della storia, sulle questioni dei rapporti con la tradizione che avevano segnato la stagione rogersiana di «Casabella». Raccogliendo la provocazione lanciata dalla Biennale di Portoghesi del 1980, Gregotti scrive: «La coscienza della complessità della storia in quanto coscienza critica dell’architettura, è stata una difficile e importante riconquista proprio della mia generazione, ma essa si è andata man mano trasformando sino al tuo totale ribaltamento di significato. L’uso del materiale storico nella progettazione è divenuto sempre più frequente: si è fatto da ideologico stilistico, evocativo, dimostrativo di un rifiuto non del nuovo ma della contemporaneità.

La stessa tradizione del Movimento Moderno è utilizzata spesso solo stilisticamente e quindi neutralizzata in quanto presa di posizione ideale. Io credo che l’ossessione della storia sia in un certo modo la risposta alla perdita dell’integrità dell’architettura. Poiché l’integrità dell’architettura necessita di rapporti ideali, alla caduta dei rapporti reali col mondo dei bisogni, della produzione, della crescita urbana, della significazione collettiva, della stessa tradizione del mestiere disciplinare, corrisponde la proiezione di questi rapporti reali sul piano fantasmatico dell’ipotesi storica. La risposta? Non c’è risposta se non quella di tornare a soffrire le incertezze della realtà».

Come già detto, in quegli anni nessuna collaborazione risulta casuale o indifferente all’identità e alla posizione della rivista, tantomeno quella con Bernardo Secchi, che su «Casabella 478» inaugurerà quello che sarà un appuntamento fisso della pubblicazione: «Il territorio dell’architettura e progetti quali lo Zen, l’Università di Calabria, Amalasunta, Cefalù, Pozzuoli – scrive Secchi –, da tempo mi avevano indotto a riflettere in modi sempre più precisi sui rapporti tra architettura e urbanistica, tra piano e progetto, producendo un mio progressivo distacco dall’urbanistica europea e italiana e una progressiva distanza critica dal diluvio di immagini che sommergeva allora e continua a sommergere il mondo dell’architettura».
Chiara Baglione ci invita a notare come a partire da questo numero «[…] si configura quell’asse Gregotti-Secchi determinante per la filosofia di «Casabella» fino al 1996.

I temi del contesto e della rimodificazione, le questioni delle aree industriali dismesse e dei suoi vuoti urbani, delle grandi infrastrutture, del disegno degli spazi aperti, delle nuove frontiere dell’ingegneria sono affrontati da due punti di vista, quello dell’architetto e quello dell’urbanista, in un dialogo diretto o tramite le pagine della rivista talvolta sollecitato da concreti incarichi progettuali».
In «Casabella» appaiono frequentemente servizi-inchieste su casi specifici un po’ in tutto il mondo di disegno urbano e sul rapporto piano e progetto, da Francoforte a Barcellona, da Berlino ad Amburgo, da Postdam a Vienna o a Bilbao.

Un’attenzione particolare è rivolta agli argomenti oggetto di numeri speciali pubblicati a gennaio/febbraio di ogni anno, che a cominciare dal primo delineano un nuovo linguaggio sin dagli stessi titoli, quanto mai evocativi, di questi approfondimenti: L’architettura del piano, Architettura come modificazione, I terreni della tipologia, Composizione-progettazione, Architettura della nuova ingegneria, Sulla strada, Il disegno del paesaggio italiano, Il disegno degli spazi aperti, Internazionalismo critico.

Numeri che rendono espliciti i rapporti tra i progetti presentati, le analisi teoriche, i saggi storici, in un intreccio che resta uno dei risultati più interessanti di questa stagione di «Casabella».

Anche la storia dell’architettura è una presenza costante nella sezione “Documenti dell’architettura”, con saggi brevi su figure ancora poco studiate dalla tradizione del moderno, in Italia e all’estero, sugli edifici industriali progettati da architetti, sulle scuole di architettura, arte applicata e ingegneria, sulle riviste. Questo senza mettere mai in discussione l’indipendenza e la specificità della storia in sintonia con la lezione di Manfredo Tafuri.

Un altro aspetto caratterizzante di questa stagione di «Casabella» è legato al dialogo con discipline estranee all’ambito progettuale, in sintonia con interessi e curiosità del direttore. È nota l’attenzione dedicata da Gregotti alle ricerche filosofiche: dalla relazione con Paci al rapporto con Massimo Cacciari e al colloquio con pratiche artistiche diverse, si pensi all’esperienza con il Gruppo 63.

La sezione “L’opinione degli altri” ospita interventi di studiosi di materie quali la filosofia appunto, la sociologia, la storia dell’arte, la letteratura. Il titolo della sezione di per sé segnala distanza rispetto alla ricerca di interdisciplinarità promossa da Maldonado. «Non si tratta di promuovere discutibili incontri interdisciplinari, ma di confrontare processi e fondazioni, problemi specifici di organizzazione delle diverse materie, tradizioni e ipotesi con cui si misurano». Contributi del filosofo Giacomo Marramao, del poeta Edoardo Sanguineti, del musicista Salvatore Sciarrino, dello psicanalista Elvio Fachinelli, della scrittrice Maria Corti, dello storico dell’arte Hubert Damisch, si alternano a dibattiti come quello sui fondamenti del progetto contemporaneo, avviato dal celebre saggio di Massimo Cacciari, Nichilismo e progetto, al quale partecipano Joseph Rykvert, Gianni Vattimo, Franco Rella, Massimo Scolari.

Nel 1988, in occasione del 60. anniversario di «Casabella», si tenne una giornata di studi per discutere sul ruolo assunto dalla rivista durante i primi sei anni della direzione Gregotti, nel contesto della quale Gregotti stesso ribadisce la sua fiducia nel metodo critico basato sull’inclusione/esclusione: «Catalogare vuol dire anche per noi fare un esame di coscienza della nostra necessaria parzialità, di quanto l’identità della rivista sia dovuta a ciò che abbiamo scelto, ma anche a ciò che abbiamo escluso.

Nel nostro mondo dell’informazione istantanea e universale, scelte ed esclusioni sono ancora più significative di un tempo, purché naturalmente ci si sforzi di spiegarne le ragioni e l’ottica, il come e il perché delle esclusioni e delle scelte, come noi crediamo di avere fatto». Proprio su questo metodo di selezione per la prima volta Vittorio Gregotti è messo in discussione da fronti opposti: da un lato vi è chi crede troppo strette le maglie di un setaccio che talvolta sembra eccessivamente condizionato dall’approccio e dalla ricerca del direttore, dall’altro vi è chi come Tafuri vede nel meccanismo dell’esclusione una rinuncia a formulare esplicitamente giudizi negativi: «Non ho mai nascosto a Gregotti una mia critica a «Casabella».

Tutto quello che lui scrive nei suoi editoriali lo condivido pienamente. Eppure mi sembra che agisca più per censura che per polemica, vale a dire bisogna capire qual è la tendenza della rivista conoscendo le opere che essa esclude contro le quali non si trova mai nessuna argomentazione critica».

Negli anni ‘90 inizia una radicale trasformazione del panorama editoriale delle riviste italiane che produce una notevole competizione di mercato e «Casabella» si trova a dover affrontare alcuni suoi nodi irrisolti, quali il rapporto problematico tra l’esigenza di ampliare la propria funzione informativa e la necessità altrettanto urgente di mantenere un proprio chiaro punto di vista. Cresce la quantità delle informazioni contenute in ogni numero, dove il rapporto tra fotografie di edifici realizzati e materiali di progetti è oramai invertito rispetto al passato, il tutto traducendosi in servizi sintetici, illustrati per lo più con immagini di piccole dimensioni, che rendono talvolta poco agevole la lettura delle opere e non ne valorizzano appieno le qualità formali e costruttive. Proprio su questo terreno sembra farsi problematica la competizione con le altre pubblicazioni di “settore”.

Ancora Chiara Baglione sottolinea che «[…] profonde modificazioni investono anche il mondo della professione, con l’emergere di una tendenza all’estromissione dell’architetto da ruoli tecnici e compiti sociali e i tentativi di relegarlo nell’universo della decorazione governato dalle leggi del successo mediatico e della globalizzazione delle immagini». È l’occasione per Vittorio Gregotti di esprimere la sua forte opinione e dissenso sulle condizioni dell’architettura. Nel saggio del 1996, Nei nostri cieli privi di idee, scrive che «la produzione architettonica dipende largamente dall’imitazione di altri prodotti di successo e il successo è garantito proprio dalla comunicazione di massa. Essi si trasmettono attraverso forme di sempre più accentuata mediatizzazione del fatto architettonico che cerca in genere di concentrare sull’immagine la qualità specifica del prodotto, a sua volta l’immagine è immediatamente soggetta al confronto con il mercato internazionale dell’immagine stessa».

Ci stiamo avvicinando qui alla fine di un ciclo glorioso della rivista, che si consuma nel 1996 con un ultimo numero doppio, il 630/631, senza commiato, come nel primo numero non vi era stata alcuna dichiarazione programmatica. Vengono raccolti solo interventi degli architetti più pubblicati: Tadao Ando, Oriol Bohigas, Henri Ciriani, Frank Gehry, Herman Hertzberger, Richard Meier, Rafael Moneo, Alvaro Siza, Eduardo Souto de Moura, Luigi Snozzi, Oswald Mathias Ungers, Gino Valle, Aldo van Eyck. Una sorta di (non) dichiarata cerimonia d’addio.
Nella comunicazione della fine del rapporto con Gregotti, l’editore spiega che «[…] è una decisione che maturava ormai da tempo. Avevamo bisogno di rivitalizzare una rivista di grande prestigio che però denota i suoi anni. Innovare il prodotto, la sua linea grafica, infondergli una sensibilità per le nuove tecnologie: tutti discorsi che con il Professor Gregotti incontravano difficoltà, e non per una sua opposizione ma perché è poco addentro ai meccanismi della casa editrice».

L’indipendenza rispetto a strategie editoriali è percepita dunque come un ostacolo dal nuovo editore, così come il fatto che egli sia un architetto impegnato nella professione, condizione peraltro da lui ribadita con orgoglio e letta ormai come un limite non tanto per lo spazio riservato sulle pagine della rivista ai progetti elaborati dal suo studio (in questo Gregotti ha precedenti illustri in Pagano e Rogers), quanto piuttosto per la sua inevitabile e rivendicata parzialità. «Nel 1982 – scrive Chiara Baglione – introducendo il suo primo contributo a «Casabella» che gli era stata affidata Gregotti scriveva che “una rivista di architettura è oggi uno strumento altamente inattuale”, un’inattualità che verrà contestata nel 1996 alla sua specifica e fortemente connotata idea di rivista».

La lettura di questa vicenda di scritture e progetti, autentica nell’attraversare tempi di espressione e inevitabili declini, lascia però in molti di noi la sensazione di una preziosa e profonda eredità di passione, di impegno culturale e civile che ha molto influenzato la teoria e la pratica della professione dell’architetto, indicandoci i doveri e le responsabilità nel modificare l’ambiente che ci circonda. In noi non può che rimanere, inoltre, la piena consapevolezza del privilegio di aver potuto godere del nutrimento di una indimenticabile generazione di maestri.

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