Autore: Paolo Lucchetta
Pubblicato in VeneziaNews – n.223, aprile 2018.
Lingua: italiano
Camicia blu, pantaloni giallo senape, ai piedi scarpe da ginnastica All Star rosse: in una foto di un paio di anni fa, e ripresa in questi giorni da decine di prime pagine di giornali e siti, c’è Gillo Dorfles con il vecchio amico Arnaldo Pomodoro mentre guarda dei disegni. Non fosse per il volto segnato dal tempo, sembra un ragazzo.
Ognuno di noi (sto pensando a ben quattro generazioni di persone affascinate dagli enigmi dell’estetica) potrebbe raccontare in quale modo ha avuto a che fare con le opere di quel “ragazzo” triestino, lasciandosi così coinvolgere in un sistema di lettura della civiltà Occidentale contemporanea.
Mi imbattei in Gillo Dorfles a sedici anni. Le oscillazioni del gusto, Einaudi, 1970 era già presente nella libreria di mio padre e fu lui a introdurmi al suo pensiero, illustrandomi, tra il divertito e il fiducioso, un libro dalla copertina rigida gialla di un autore che veniva già allora definito il decano dell’estetica moderna, il maestro dei maestri.
Fu la prima volta che sentii descrivere da mio padre perché la “complessità non nuoce” se si è disposti a coniugare tra loro le cose del mondo, la pittura, la linguistica, il disegno industriale, l’internazionalismo, la moda, la fotografia, la pubblicità.
“La complessità che non nuoce” era quella complessità che Gillo ha accolto, cresciuto, nutrito, curato, capito, approfondito e divulgato e che quel libro metteva a fuoco con un cambio di registro, un’attenzione tutt’altro che semplicistica al mutare di un’epoca. Erano finiti gli anni ’60 e con essi anche quel modo di indagare i fenomeni estetici fondato sull’idea dei valori eterni e sull’autonomia dell’arte. Dorfles non era insensibile allo sviluppo dei mezzi meccanici, alle prime apparizioni dei computer che trovavano applicazioni nella musica, nella grafica, nella poesia e perfino nella pittura; naturalmente questo stonava con l’idea che l’opera d’arte avesse una funzione universale nel forma re il gusto, rendendolo un’esperienza autentica.
Il gusto non era più orientato, dettato, legittimato da una sparuta élite di cultori o da un’educazione certa e condivisa: occorreva prendere atto che si era acuita la sensibilità dell’uomo della strada e che l’“arte utilitaria” con la sua produzione di oggetti in serie, con il design e la pubblicità, stava prendendo il posto dell’“arte pura”.
Fu in questo contesto che Dorfles ripensò la categoria del Kitsch, dapprima come espressione del cattivo gusto, sempre più sfrenato e ubiquitario, in seguito come parte integrante dell’arte stessa. Quella presentazione di mio padre mi accompagna ancora, come il ricordo dell’“horror pieni”: «Viviamo nella civiltà del rumore e una delle calamità dei nostri tempi è la perdita dell’intervallo: non esistono più pause, né silenzi. Tutta colpa della moltiplicazione degli oggetti, delle informazioni, delle sollecitazioni
sensoriali (visive, auditive, tattili). Una certa dose di scorie è tipica di qualunque comunicazione, anche sana : il problema è che oggi le scorie, la prevalenza del cortocircuito massmediatico sembra aver soppiantato le attività culturali».
Più recentemente ho raccolto il ricordo di Fabrizio Plessi, uno degli artisti che ho incontrato (a cura di Luigi Sansone), Skira, 2015, libro nel quale è possibile addentrarsi nel mondo di Dorfles come critico d’arte e che sorprende per la sua vastità e capacità di partecipazione e di approfondimento degli artisti e delle correnti che esamina. Il libro riguarda il viaggiare nella speranza di trovare l’inatteso, l’inaspettato, ovvero quelle esperienze che trasformano i nostri paradigmi e ci costringono a guardare con occhi diversi la realtà, attraverso la conoscenza diretta dei protagonisti dell’arte e della cultura, ma anche attraverso informazioni che gli venivano da cari amici, artisti sconosciuti, depressi o in crisi di identità, esortandoli ad andare avanti nella ricerca senza farsi condizionare dalla cronaca e dai critici del proprio tempo.
Curiosità e insieme desiderio di riconoscere, con il suo occhio e i suoi modelli culturali anti-accademici, tra la moltitudine di persone qualcuno che fosse rimasto se stesso, un irregolare rispetto a una carriera tradizionale, ma che dal suo punto di vista rappresentava l’originalità rispetto alla tradizione.
Studioso del gusto e delle arti, antropologo, indagatore dei costumi, in relazione anche alla sua formazione di medico, specializzato in psichiatria, Dorfles ha sempre rivolto la sua tensione soprattutto verso artisti che si sono dedicati, sia nel passato che nel presente, a ricerche di nuove forme espressive di carattere tecnico ed estetico nel dare vita alle loro creazioni, ritenendo la vera arte un’interprete diretta dello spirito del proprio tempo, che si evolve e si arricchisce in un continuo adeguamento alla realtà del vivere.
Ancora una volta poi grazie a un libro, “I mari di Trieste” (a cura di Federica Manzon), Bompiani Overlook, 2015, che raccoglie tra gli altri un saggio di Gillo, ho conosciuto alcuni risvolti inediti tra i più significativi della sua incredibile vita. Fu a Trieste, infatti, che cominciò ad avere la passione per i “libri belli” nella Libreria Antiquaria di via San Nicolò di Umberto Saba, dove, attratto da un esemplare settecentesco del Fedone di Platone, racconta che il poeta-libraio rispose con una frase tipicamente triestina: «Cos ti voi, Picio? No xè roba per ti !».
Il libro “l mari di Trieste” descrive attraverso le testimonianze dei suoi migliori letterati come “Trieste è il suo mare”, un mare diverso da qualsiasi al tro, che da subito cambia nome e diventa più familiarmente “bagno”, ad indicarne una prossimità domestica, molteplice e paradossale.
«Ai bagni a Trieste ci andavo tutti i giorni – scrive Gillo – perché a Trieste è sempre stato logico con l’arrivo della bella stagione esporsi al sole, andare ai bagni. Penso che anche adesso la gente ci vada per i motivi per cui ci andavo al lora, ossia perché ci trovavo gli amici. C’era sempre la stessa gente, ci davamo appuntamento al Savoia: io, Leanor Fini, Bob Bazlen, Leo Castelli. Con Bob Balzen prendevamo lezioni su James Joyce da un vecchio professore della Berlitz che lo aveva conosciuto e che ci faceva leggere le pagine dell’Ulisse, spiegando minuziosamente ogni frase. Era il pasto principale delle mie giornate.
Ero amico di Leo Kraus Castelli, membro di una famiglia che faceva parte della grossa borghesia più o meno ebraica. A volte trascorrevamo l’intera giornata sulle assi di legno umide di quello stabilimento bianchissimo e geometricamente fascista. Era il luogo dove ci incontravamo perché era il più vicino al centro e ci si arrivava direttamente in tram; era il bagno ideale perché era molto profondo e c’erano i trampolini. Stavamo lì per ore, per ore chiacchieravamo: io che ho sempre nuotato per modo di dire, amavo piuttosto fare quelle cose per nulla faticose come prendere il sole o partecipare alle discussioni o dedicarmi alle danze con le fanciulle della casa malgrado la mia estrema timidezza, qualche passo di fox-trot al suono di un grammofono gracchiante».
Nel saggio di Gillo il mare di Trieste è descritto come: «ideale perché è sempre tranquillo, è poco mare, è una specie di lago salato, senza onde. È fermo immobile, tranne i giorni in cui tira la bora, ma in quel caso non è dato avvicinarsi. Ed è comunque un elemento decorativo di prim’ordine, anche se per me Trieste non è una città marittima, è una città dell’interno che poi quasi accidentalmente, ha scoperto il mare». Una Trieste che per Gillo ha la sua anima gemella in San Pietroburgo: «Sono molto simili, la stessa architettura e la stessa atmosfera. Molti edifici neoclassici di Trieste potrebbero trovarsi benissimo lungo le strade di San Pietroburgo e ho sempre pensato che se negli anni della guerra fossero arrivati i russi a occupare le rive e il Borgo Teresiano si sarebbero trovati una città a loro molto familiare». A Dorfles colpisce la storia particolare della città, che ha fatto sì che la gente maturasse un rapporto con il mare tutto edonistico che nulla ha a che vedere con l’idea di un commercio marinaro.
Ma questo è colpa della sua storia: sarebbe potuta diventare un grande porto e avrebbe così sviluppato con il mare una vocazione economica, invece si è fermata, sospesa tra un passato decaduto e un futuro di continuo rimandato. «Per l’Italia, Trieste era un territorio lontano e di precaria conquista, perdibile da un momento all’altro e, quindi, è naturale che ai cittadini non sia rimasto che godersi quello che avevano davanti a casa: un mare sportivo, l’amore per la vita all’aria aperta, il sole, le gare
di tuffi, le immersioni o le regate in barca a vela. Il mare è nel sangue dei triestini e, come in nessuna altra città italiana, tutti vanno ai bagni in qualsiasi momento, per incontrare gli amici, chiacchierare, ritrovarsi o dirsi addio: il grande lago salato è sempre a pochi passi, addomesticato e familiare».
Gillo Dorfles alla fine se ne era andato da Trieste, come Bob Bazlen, come Saba, come Carlo Stuparich. Tutti partiti verso ovest, a Firenze o Milano, dove c’erano le riunioni delle riviste e sembrava animarsi la vera produzione culturale, quella ufficiale e per questo riconosciuta. Partiti per sfuggire alle contraddizioni della loro psicoanalitica città, alla sua immobilità decadente che fa ammalare i deboli di nervi, a quel suo sfinente slancio sempre sul punto di essere qualcosa di grandioso: «il tuffo del trampolino di un ragazzino eternamente sospeso in una grazia perfetta e inutile».
Come ben narrato nella pubblicazione “Paesaggi e personaggi” (a cura di Enrico Rovelli), Bompiani, 2017, mentre Trieste per Gillo è un paesaggio esterno che diventa una mappa geografica del proprio io, un modo di tenere tutto insieme, alto e basso, mente e corpo, interno ed esterno, natura e artificio, le persone e le cose, il desiderio di viaggiare è innanzitutto un bisogno mentale e, quindi, fisico, «perché lo sguardo è sempre altrove», «perché il prossimo mi interessa sempre più di me stesso». Viaggiare leggero, sempre con una vecchia Olivetti Lettera 22, perché la mente deve essere leggera, capace di accogliere senza pregiudizi l’inaspettato, per poi tornare a casa a Milano.
Perché Milano, sua città elettiva, ha delle qualità che nessun’altra città in Italia ha, insieme al fatto che è uno sbaglio lasciare il proprio paese linguistico ed è necessario «ritornare là dove siamo partiti la prima volta».
Angelo “Gillo” Dorfles veniva da un altro mondo, non amava le domande sulla longevità, eppure era inevitabile per tutti chiedergli come avesse potuto sopravvivere al proprio tempo così a lungo ottenendo risposte ovvie: il pesce fritto, a pranzo e cena pesce condito con l’aceto, i fiori di zucca, i carciofi, gli gnocchi alla romana, il vino
rosso Cannonau, perché per Gillo «il bianco non esiste».
E poi le pinne nere, le All Star rosse e il circondarsi tutta la vita di grandi amici con i quali legarsi in una sintonia di visione del mondo, di stile, di indifferenza verso i poteri.
Il suo segreto sembrava essere però la curiosità per tutto ciò che è umano, il bello e il brutto, l’elegante e il kitsch, l’armonia e la mostruosità.
La mostra Vitriol rappresenta il suo testamento spirituale, con una frase derivante dall’esortazione “conosci te stesso”, massima scritta sul tempio di Apollo a Delfi, «Visita Interiora Terrae Rectificando lnvenies Occultum Lapidem» (Visita l′interno della terra e con successive purificazioni, troverai la pietra nascosta), e una grande lezione: il futuro è un modo di vivere aperto a ogni novità, soprattutto se proviene da mondi diversi da quelli accademici, ed è dedicato a esplorare, associare, decifrare,
smascherare, scoprire, mostrare, scrivere, spiegare e a riconoscere che «la complessità non nuoce». Ciao, Gillo. Grazie!